14 luglio 1789 la presa della Bastiglia/L’eredità inquieta della Rivoluzione E la borghesia ebbe coscienza della sua forza di Riccardo Bruno "Couton, ha sete, dategli un bicchiere di sangue". Così il leader girondino Vergniaud, poco prima di finire sul patibolo, si rivolgeva al presidente del comitato di salute pubblica durante i lavori della Convenzione davanti ad un Robespierre che, livido in volto, già aveva appuntato il suo nome in cima alla liste del Grande Terrore. La presa della Bastiglia del 14 luglio del 1789 era solo l’icona di un processo rivoluzionario che si sarebbe dimostrato imprevedibile nei suoi sviluppi recenti, ancora di più di quelli futuri. Gran parte dei sobillatori che infiammarono il popolo per la presa della fortezza, finiranno presto per essere uccisi dallo stesso regime che avevano creato. Camille Desmoulins, quella mattina era stato l’oratore più appassionato che, montato sui tavolini dei caffè negli Champs Elisées arringava la folla. Tempo 5 anni e volerà persino la sua testa. La tradizione illuminista, i "philosophes", i circoli ed i club borghesi che avevano preparato la grande rivoluzione, contavano su un pieno decorso razionale degli eventi. Begli illusi. Non c’è storia umana che si svolga su un esclusivo piano logico e la Grande rivoluzione, i suoi protagonisti ed i suoi effetti sono lì a dimostrarlo. Gli accademici che insegneranno alla Sorbonne si sono spesso accapigliati intorno alle figure di Robespierre e Danton quasi che da queste potesse essere dipeso il corso degli eventi. Gli storici che invece sono più rimasti nell’esperienza contemporanea, Tocqueville e Cochin, sono sostanzialmente degli antirivoluzionari. Infine, gli storici più vicini a noi, Francois Furet, ad esempio, tendono a minimizzare il ruolo dei protagonisti della rivoluzione francese: "E’ tutta colpa di Rousseau", scriverà Furet per spiegare come le idee possano fare più danni delle azioni. Vi sono dei miti da sfatare nell’odissea rivoluzionaria, il primo che il popolo sotto l’Assolutismo soffrisse la fame. La fame la si soffrirà sotto il governo giacobino. La crisi economica dell’Assolutismo infatti non coincide con l’impoverimento della Francia, ma con uno spreco delle sue risorse. Pierre Gaxotte è lo studioso che meglio saprà fare il punto su questa situazione, sfatando una frase celebre, quanto equivocata, di Maria Antonietta. Se poi viene data la giusta attenzione all’opera dell’abate di Sieyès, "Il terzo stato", si comprende meglio cosa sia veramente in ballo nella rivoluzione e cioè l’influenza della borghesia sulla società, quando l’aristocrazia "può tutto senza saper fare nulla". La rivoluzione francese è principalmente la storia di un’ascesa sociale. Un romanziere di genio come Balzac dipingerà la Francia di Luigi Filippo come il regno dei parvenus senza scrupoli, e quella è per lui la vera eredità della rivoluzione: la conquista di ricchezza e potere per una classe che non ne aveva dimistichezza alcuna. Non è un caso che Balzac sarà autore preferito dal marxista Georgy Lukacs, che per l’appunto vede nella rivoluzione francese solo un primo passo per uno più importante che deve essere compiuto. La questione che attanaglierà tutto un secolo ed oltre, fra giacobini e girondini, è tutta qui: i giacobini erano davvero, come li riteneva Marx, coloro che volevano fare la rivoluzione "fino in fondo"? Sì, se si trattava di annichilire l’eredità assolutista, vedi la decapitazione del re, di reprimere duramente ogni fermento aristocratico, ma attenzione a mettere in questione la proprietà privata. Robespierre dirigerà la macchina del terrore contro gli estremisti dell’eguaglianza, arrabbiati e sanculotti, come l’aveva diretta spietatamente contro i moderati, foglianti e girondini e poi persino i cordiglieri, tanto per capire come nel puro centro della morale rivoluzionaria si finisca per fare il vuoto intorno a sé. Il leader giacobino sarà abbandonato presto anche dai suoi estimatori: "Tutto è coalizzato contro di me", il suo discorso dell’8 Termidoro, solo poche settimane dal momento del suo massimo trionfo nelle celebrazioni al Campo di Marte. A voltagli le spalle non è il complotto monarchico contro cui Robespierre ha speso tutte le sue forze e nemmeno i suoi nemici dei club rivali, che ha già spazzato via. Sono i suoi compagni giacobini, Barras, Fouchè, Tallien, Billaud Varenne, Vadier, gli stessi che da giorni fra i banchi della convenzione tessono trame fra la Palude e la Montagna e parlano di lui come di "un tiranno". Altra illusione, quella di credere che, caduto Robespierre, si potesse mantenere la Repubblica. Da lì a poco il direttorio finirà nelle mani di Bonaparte, che in fondo è il vero erede politico di Robespierre. Senza i pregiudizi di quest’ultimo, Napoleone realizzerà quello che il suo protettore di un tempo non osava immaginare per se stesso. E’ Bonaparte a estendere l’idea repubblicana oltre i confini della Francia, "il gran ladro d’Europa" lo definiva il duca di Wellington, "l’uomo fatale", lo chiamava Manzoni. Fra questo contrasto di giudizio non c’è solo la definizione dell’Imperatore francese, ma della stessa rivoluzione che lo lanciò sulla scena del mondo contemporaneo. |